QUANDO SARTRE INCONTRÒ LA FENOMENOLOGIA
Michele Botto: italiano. Doctor en Filosofía por la Universidad Autónoma
de Madrid. Profesor de Ciencias Sociales, Educación Ético-cívica, Filosofía y
Ciudadanía e Historia de la filosofía en educación secundaria obligatoria y
bachillerato.
Correo electrónico: mbotto2002@yahoo.it
Fecha de recepción: junio 1 de 2013
Fecha de aceptación: julio 15 de 2013
Sintesi: Il presente articolo vuole presentare l'emergere del problema del soggetto nella filosofia di Jean Paul Sartre. È il Sartre de La transcendance de l'Ego, un'opera fondamentale per capire l'associazione Io=Nulla del successivo L'être et le néant. In gioventú Sartre fu ispirato dalla fenomenologia di Husserl e volle seguire quella scia. La fenomenologia sembrava essere uno strumento adeguato per giungere "alle cose stesse". Ma la gran differenza fra Husserl e Sartre sarà proprio la questione del soggetto, che per Husserl è una condizione a priori mentre per Sartre è evanescente e quindi non fondamentale.
Parole chiave:: Sartre, Husserl, fenomenologia, soggetto, coscienza.
CUANDO SARTRE DESCUBRIÓ LA FENOMENOLOGÍA
Resumen: El presente artículo quiere exponer el nacimiento del problema del sujeto en la filosofía de Jean Paul Sartre. Se trata del Sartre de La transcendance de l'Ego, una obra fundamental para entender la asociación Yo=Nada de la sucesiva L'être et le néant. En su juventud, Sartre fue inspirado por la fenomenología de Husserl y quiso ponerse en su estela. La fenomenología parecía ser un instrumento adecuado para alcanzar "las cosas mismas". Sin embargo, la gran diferencia entre Husserl y Sartre será exactamente la cuestión del sujeto, que para Husserl es una condición a priori, mientras para Sartre es evanescente y entonces no fundamental.
Palabras clave: Sartre, Husserl, fenomenología, sujeto, conciencia.
QUANDO SARTRE INCONTRÒ LA FENOMENOLOGIA
«A vrai dire, il faut partir du Cogito, mais on peut dire de lui, parodiant une
formule célèbre, qu'il mène à tout à condition d'en sortir»
Sartre, La transcendance de l'Ego
«—Je doit vous expliquer pourquoi je suis venu ici, dit Jacquemort. Je
cherchais un coin tranquille pour un'experience. Voilà: representez-vous le petit
Jacquemort comme une capacité vide.
—Un tonneau? Proposa Angel. Vous avez bu?
—No, dit Jacquemort. Je suis vide. Je n'ai que gestes, réflexes, habitudes. Je
veux me remplir. C'est pourquoi je psychanalyse les gens...»
Boris Vian, L'arrache-coeur
UN MALINTESO RIGUARDO AL TERMINE INTENZIONALITÀ
La filosofia di J.P. Sartre può essere considerata come discendente diretta della fenomenologia di E. Husserl. L'autore francese vi apportò senza dubbio alcuno temi originali, trasfigurando l'opera del maestro, ma restandone sicuramente debitore. Destino d'ogni teoria è, d'altro canto, l'essere legata all'interpretazione e agli interessi specifici di ciascun fruitore, e così fu per Sartre, che raccolse a man bassa tutto ciò che ritenne utile ma, alla fine di un percorso relativamente breve, reimpostò la fenomenologia creando un esistenzialismo fecondo ed originale. La metamorfosi della fenomenologia da parte del giovane Sartre è il tema del presente articolo.
Prima d'arrivare a Berlino (all'età di ventotto anni), Sartre viveva con insofferenza l'atmosfera filosofica parigina. I professori della Sorbona sembravano "cani da guardia" della tradizione filosofica francese, sempre ad una certa distanza dalla realtà, dall'esperienza quotidiana, diretta.
Raymodn Aron, amico di Sartre, tornò da Berlino affascinato dalla fenomenologia:
Quando venne a Parigi ne parlò a Sartre. Passammo insieme una serata al Bec du gaz, rue Montparnasse; ordinammo la specialità della casa: dei cocktails all'albicocca. Aron indicò il suo bicchiere: "vedi, mio piccolo compagno, se tu sei un fenomenologo puoi parlare di questo cocktail, ed è filosofia!". Sartre impallidito dall'emozione, o quasi; era esattamente quello che attendeva da anni: parlare delle cose, proprio quelle che toccava, e che questo fosse fare della filosofia (De Beauvoir, 1960, p. 156).
Sartre attendeva dunque a braccia aperte un pensiero che sapesse accogliere ed incanalare le sue intuizioni. La fenomenologia sembrava fare al caso suo, per il carattere schietto e per l&pos;ambizione di avere a che fare "con le cose stesse"1. Essa nasce, quindi, dall'esigenza di descrivere il fenomeno così come esso si dà alla coscienza, il che vale a dire utilizzare il significato originario della parola "fenomeno": ciò che si manifesta o ciò che appare.
Il dualismo essere-apparire non deve più trovare diritto di cittadinanza in filosofia. L'apparenza rinvia alla serie completa delle apparenze e non ad un reale nascosto che verrebbe ad assorbire per sé tutto l'essere dell'esistente. [...] Fino a che si è potuto credere alle realtà noumeniche, si è presentata l'apparenza come pura negatività. [...] Ma se ci siamo liberati dai "retromondi occulti" di cui parlava Nietzsche, se non crediamo più all'essere-che-sta-dietro-all'apparenza, questa diviene pura positività, la sua essenza è un "sembrare" che non si oppone più all'essere, ma che, al contrario, ne è la misura (Sartre, 1997, pp. 11-12).
Non legittimando più i retromondi occulti della metafisica, per il giovane Sartre l'essere si configura direttamente in contatto con la coscienza. La coscienza è così intesa come consapevolezza degli oggetti che ci circondano, è il necessario correlato di ciascun fenomeno. La fenomenologia si dà quindi come scienza dei fenomeni e del loro manifestarsi originario alla coscienza. Come vedremo, il termine "originario" sarà il nucleo di una battaglia filosofica che coinvolgerà non solo la fenomenologia come metodo, bensì la idea di soggettività, ciò che avvertiamo al dire "io sono" che, com'è noto, per Sartre è il nulla (di determinato).
Il principio cardine della fenomenologia è il principio d'intenzionalità, che Husserl riprese dal suo maestro F. Brentano. Esso è molto semplice nella sua formulazione: ogni coscienza è sempre coscienza di qualche cosa. Ciò significa che a ciascun atto della coscienza corrisponde sempre un oggetto di riferimento, cosicché all'udire corrisponde sempre un oggetto udito, al gustare un gustato, ad un pensare un pensato e così via2.
Intenzionalità significa dunque che ogni atto della coscienza è un "tendere" verso qualcosa (un in-tendere) e che ciascuno di questi atti si dà alla coscienza come un vissuto, come, in altre parole, un'esperienza del mondo. È importante rilevare quanto fosse essenziale tale principio per Sartre. Ciò che, infatti, gli garantiva la fenomenologia era la possibilità implicita d'indagare i rapporti tra la coscienza ed il mondo senza intaccare l'indipendenza di quest'ultimo. Se l'idealismo imperante del secolo XIX suggeriva che il mondo è, in ultima istanza, una rappresentazione del soggetto, il giovane Sartre si preoccupa in chiave anti-idealistica per salvare l'aspetto per così dire rugoso delle cose, la loro contingenza. «La filosofia francese, dopo cent'anni d'accademismo è ancora là. Abbiamo tutti letto Brunschwicg, Lalande e Meyerson, abbiamo tutti creduto che lo Spirito-Ragno attirasse le cose nella sua tela, le coprisse di una bava bianca e lentamente le deglutisse, le riducesse alla propria sostanza» (Sartre, 1947, p. 29). Per contro: «Husserl non cessa di affermare che non si possono dissolvere le cose nella coscienza. Vedete quest'albero, sia. Ma voi lo vedete nel luogo stesso in cui esso è: a fianco della strada, in mezzo alla polvere, solo e storto sotto il calore, a venti leghe dalla costa mediterranea» (Sartre, 1947, p. 30).
Ecco che, con la fenomenologia, la filosofia diventa una passeggiata avventurosa per le strade del mondo, ecco che la freschezza e l'imprevedibilità della vita sono restituite alla coscienza. Il senso profondo della scoperta di Husserl è dunque che «qualsiasi coscienza è coscienza di qualche cosa. Non c'è bisogno di null'altro per metter fine alla filosofia dolciastra dell'immanenza, in cui tutto avviene attraverso compromessi, scambi protoplasmici, mediante una tiepida chimica cellulare. La filosofia della trascendenza ci getta sulle strade, tra le minacce, sotto una luce accecante» (Sartre, 1947, p. 31).
Aldilà delle espressioni vivaci e colorite, possiamo notare come per Sartre la fenomenologia è una filosofia trascendentale. Il termine trascendentale, fedelmente a Kant, indica l'ambito della mente, della possibilità di avere un'esperienza, ovvero l'oggetto non viene pensato come preso in se stesso, bensì filtrato dalle nostre capacità percettive ed intellettuali. Sartre, tuttavia, vede nella fenomenologia di Husserl un altro senso della trascendentalità: un entrare in contatto con l'oggetto nella sua purezza, un toccare con mano il noumeno delle cose, l'assaporare le esperienze per quello che sono. Più che un soggiornare nella propria mente, un uscire dal sé. Come può esser ciò possibile?
Sartre radicalizza il principio d'intenzionalità, che diviene rapporto ad un oggetto esterno e non più relazione psichica ad un correlato mentale. Husserl indaga l'ambito della coscienza pura e per lui il mondo (in particolare il mondo nel suo aspetto contingente) può essere sospeso dalla riduzione fenomenologica. Husserl cerca, infatti, il rigore scientifico, dunque si concentra su ciò che permane invariato sotto i colpi dell'epoché, il campo trascendentale puro. Husserl va alla ricerca delle essenze, Sartre dell'irriducibilità delle esperienze, della contingenza3.
Per Sartre il mondo non può essere posto tra parentesi (come vorrebbe l'epoché husserliana), semplicemente perché senza il mondo la stessa coscienza non avrebbe senso. Per Husserl il "raggio" intenzionale dona senso al mondo, per Sartre è il contrario: è il mondo, sono le cose stesse che danno un senso alla coscienza, all'atto di esistere. È il mondo che fa la coscienza, e non il contrario. All'idealismo Sartre oppone un feroce ed indomabile realismo. La coscienza è un raggio puro, essa «... si è purificata, è chiara come un gran vento, non c'è più niente in essa, salvo un movimento per fuggirsi, uno scivolare fuori di sé; se, per assurdo, voi entraste "in" una coscienza, sareste presi da un turbine e rigettati al di fuori, vicino all'albero, tra la polvere, perché la coscienza non ha un "dentro"» (Sartre, 1947, p. 30).
La coscienza è priva di sostanzialità, è costantemente altro da sé, riceve la sua realtà dal mondo poiché di per sé essa è nulla. L'intenzionalità, per Sartre, è un contatto ingenuo con il mondo, implica l'essere costantemente sorpresi dallo spettacolo del mondo, senza anticipazioni e pure senza delusioni. Pensando in tal modo l'intenzionalità, la soggettività risulterà essere come l'altro da sé, come la negazione dell'oggetto. Se per Sartre l'idealismo funziona come uno "Spirito- Ragno", per noi la coscienza sartriana è come uno specchio, che non è mai realmente sé stesso, che non può riflettere sé stesso4.
La realtà della coscienza è paradossalmente nelle cose in cui essa vaga sfuggendo perpetuamente al sé. Tuttavia, affrontare il mondo non è solo conoscerlo asetticamente, bensì sperimentarlo anche attraverso la sua affettività intrinseca: l&pos;attenzione del soggetto (la coscienza) si posa sulle cose con una carica emotiva perché le cose stesse possiedono qualità affettive. Amore, odio, simpatia, orrore diventano proprietà intrinseche agli enti e non più relazioni "soggettive". La coscienza è svuotata, non possiede un carattere, non presenta una disposizione interiore (una hexis aristotelica). «Egli [Husserl] ha fatto piazza pulita per un nuovo trattato sulle passioni che s'inspirerà a questa verità così semplice e così profondamente sconosciuta a noi raffinati: se amiamo una donna, è perché ella è amabile» (Sartre, 1947, p. 32).
La radice delle emozioni non risiede nel soggetto, bensì nell'oggetto. Nel caso in questione: non amiamo la donna perché abbiamo dell'amore da dare o perché la osserviamo in modo favorevole, bensì ella suscita tale emozione e quindi l'amiamo. Si nota chiaramente che considerare l'intenzionalità dal punto di vista di Husserl o dal punto di vista di Sartre genera due psicologie altamente differenti.
È chiaro che Sartre ha frainteso lo spirito della fenomenologia husserliana. L'intentionnalité è un articolo scritto probabilmente a ventinove anni, mentre l'autore soggiornava ancora a Berlino e da poco tempo si addentrato nei meandri del pensatore tedesco5. Fu però un errore proficuo, giacché guidò il giovane Sartre all'elaborazione di un progetto filosofico originale che condurrà inevitabilmente dapprima all'esistenzialismo, poi alla decostruzione del soggetto. In qualche modo Sartre anticipa diversi temi conduttori della seconda metà del novecento.
IL PROBLEMA DELL'EGO IN HUSSERL.
Se Sartre restituisce la qualità alle cose stesse, Husserl la attribuisce alla maniera in cui le si "intenziona". L'aspetto amabile della donna, portato ad esempio da Sartre, per Husserl sarebbe una particolarità dell'intenzione con la quale la percepiamo, sarebbe il senso che noi doniamo ad essa.
In un certo senso, lo stesso Husserl tradisce il motto fenomenologico: "Verso le cose stesse!", giacché considera le cose esclusivamente nel loro apparire nel campo trascendentale della coscienza. Ecco perché Sartre può accusare Husserl di aver trasformato la fenomenologia in un idealismo trascendentale.
Il mondo, per l'autore francese, non è relativo alla coscienza, esso appare come una rivelazione, allo stesso modo in cui ne La nausée Roquentin prova l'esperienza sconvolgente, ai giardini pubblici, della fatticità della radice di un albero e al tempo stesso di se stesso.
Per Sartre percepire è inciampare contro una presenza, è un avvenimento forte e rivelatore. Il mondo è significante e imperiosamente presente poiché la coscienza si delinea solamente in realzione a esso, fuggendo se stessa. Così, secondo G. Varet: «Sartre prende il rischio di trovare nelle cose quello che senza dubbio non può che essere ottenuto per un'operazione dello spirito» (Varet, 1948, p. 178).
Questo rischio può essere preso esasperando (o semplicemente considerando in modo naïf) il principio d'intenzionalità: ogni coscienza è coscienza di qualche cosa. Dunque ogni vissuto intenzionale è trascendenza della coscienza verso l'oggetto, oltre il campo trascendentale (in cui s'arresta l'intenzionalità husserliana) per essere «presenza della "cosa" (Sache) in persona alla coscienza» (Sartre, 1997, p. 67), come ribadirà l'autore qualche anno più tardi ne L'être et le néant.
Mantenendosi in un'ottica realista, «Sartre fa dell'esclusione reciproca della coscienza e del mondo la condizione di possibilità della loro messa in relazione» (Coorebyter, 2000, p. 67). Se la coscienza è «un movimento per fuggirsi, uno scivolare fuori di sé» (Sartre, 1947, p. 30) resta un punto fisso da abbandonare: l'Io. È il passo decisivo che differenzia i due autori in questione. Contro qualsiasi oggettivazione della coscienza e contro l'esistenza dunque di un "mondo interiore" in essa, Sartre scaricherà alcuni dei suoi più irriverenti attacchi, negando l'esistenza di qualsiasi sostanza o punto di riferimento trascendente alla coscienza stessa. Tale passo decisivo è compiuto nell'articolo La transcendance de l'Ego6.
Le poche righe poste come ouverture a questo articolo riassumono bene le intenzioni dell'opera relativamente alla concezione dell'Ego e della fenomenologia in generale:
Per la maggior parte dei filosofi l'ego è un "abitante" della coscienza. Certi affermano la sua presenza formale in seno agli Erlebnisse, come un principio vuoto d'unificazione. Altri (psicologi per la maggior parte) pensano di scoprire la sua presenza materiale, come centro dei desideri e degli atti, in ciascun momento della nostra vita psichica. Noi vogliamo dimostrare che l'ego non è né formalmente né materialmente nella coscienza: esso è fuori, nel mondo; è un essere del mondo, come l'Ego degli altri (Sartre, 1978, p. 13).
In continuità con L'intentionnalité, Sartre ribadisce l'ineffabilità della coscienza (che è "come un vento"). Si tratta di una demarcazione fondamentale rispetto ad Husserl e, al tempo stesso, di una sfida ad una delle più solide certezze della filosofia moderna: la certezza della realtà e del primato dell'Io. La concezione sartriana si avvicina a tutte le teorie che considerano il sé, in quanto centro d'unità ed individualità di una persona, un'illusione. Tra queste, per esempio, il buddismo o il post-strutturalismo, culminando nell'opera schizzofrenica di Deleuze e Guattari7.
Abbiamo visto come nel pensiero del filosofo tedesco la coscienza "resista" alla riduzione fenomenologica e si ponga come un assoluto. Essa ha come principale caratteristica quella di rendersi conto costantemente della presenza di un mondo fatto da oggetti, riducendoli alle loro rispettive essenze. Quest'ultime sono date su di un piano trascendentale, o puro, che ne costituisce il campo.
L'analisi fenomenologica si pone come intuizione delle essenze degli oggetti intenzionati (che siano ricordi, immagini, giudizi, cose, ecc.), i quali si danno alla coscienza come dei vissuti, «...con tutta la pienezza concreta secondo la quale s'inseriscono nel loro contesto —il flusso dei vissuti— e ci si aggiungono in virtù della propria essenza» (Husserl, 1965, p. 69, § 33).
Husserl si trova quindi nella necessità di mostrare come si possa costruire tale flusso, e come esso si possa svolgere nel tempo. Risponde in questi termini: «Tutto il vissuto reale è necessariamente un vissuto che dura; e con questa durata esso si ordina in un continuum senza fine di durate [...], altrimenti detto esso appartiene ad un unico flusso di vissuti» (Husserl, 1965, p. 181, § 81). «Questo è un'unità infinita, e la forma del flusso è una forma che abbraccia necessariamente tutti i vissuti di un me puro» (Husserl, 1965, p. 183, ยง 82).
Il me puro dunque ha la sua origine in un orizzonte di vissuti (che si danno come successivi o simultanei), il quale orizzonte costituisce la sfera temporale del presente, dell'«adesso della coscienza» (Husserl, 1965, p. 183) e la costituisce unitariamente. Il passato non è che un ora modificato per il variare dell'orizzonte dei vissuti legato al loro aggiungersi senza sosta (la coscienza non si può fermare).
La coscienza trova così la sua unità statica, ma che dire della sua unità dinamica, cioè del suo svolgersi nel tempo? Una coscienza non dovrà forse apparire differente a se stessa d'intenzione in intenzione?
In realtà passato e futuro si danno secondo la ritenzione e la protensione, cioè il ricordo e l'anticipazione secondo ogni vissuto, il quale, al proprio apparire, dispone già di un orizzonte anteriore e di un orizzonte posteriore.
A questo punto Husserl può dichiarare che la coscienza è «da una parte un unico me puro, d'altra parte un unico flusso di vissuti, riempito secondo tre dimensioni, essenzialmente solidale a se stesso in questa pienezza, suscitando se stesso attraverso la sua continuità di contenuto» (Husserl, 1965, p. 275).
Il flusso di vissuti si dà come un continuum unico poiché esso «non può né cominciare né finire. Ciascun vissuto in quanto temporale è il vissuto del suo me puro . E qui entra in gioco la questione dell'Ego in Husserl. Infatti, l'appartenenza all'unico flusso è l'appartenenza all'unico Ego.
È possibile distinguere nell'Ego husserliano un Io (centro propulsore di tutte le intenzioni) e un Me (cioè la riflessione dell'Io su se stesso). Il "problema" dell'Ego concerne dunque principalmente il Me. Si può distinguere un Me trascendentale ed un Me psicologico.
Il Me psicologico rappresenta l'esperienza "esterna" della coscienza, cioè il suo modo di porsi nel mondo (può essere interpretato come il carattere, la personalità, l'habitus dell'uomo). Esso è legato «all'appercezione naturale» ed è oggetto delle scienze positive quali la biologia, l'antropologia e la psicologia empirica. Ma «la vita psichica, di cui parla la psicologia, è sempre stata concepita come vita psichica nel mondo»8 (Husserl, 2002, p. 53), dunque anche questa è destinata ad essere messa "fuori gioco" dalla riduzione fenomenologica. Ciò significa che per Husserl la filosofia non si deve occupare dell'Io empirico (personalità, desideri etc.) giacché questo non rispetterebbe lo spirito scientifico richiesto dalla fenomenologia (ovvero occuparsi delle essenze, ricavate dalla riduzione eidetica).
Al contrario, risulta interessante sapere se il Me trascendentale resiste ai colpi dell'epoché, quindi se il Me trascendentale è parte costitutiva, necessaria per l'esistenza di una coscienza umana. Husserl constata che, pur applicando la riduzione eidetica all'esistenza del mondo empirico, «me stesso e la mia propria vita rimangono intatti a prescindere dall'esistenza o dalla non-esistenza del mondo» (Husserl, 2002, p. 52). 'Cada pure il mondo, ma non sacrifichiamo l'Io!' sembra affermare Husserl. Insieme al valore esistenziale del mondo cade anche il Me psicologico, cioè «attraverso l'epoché, riduco il me umano e naturale e la mia vita psichica -dominio della mia esperienza psicologica interna. Al mio Me trascendentale e fenomenologico, dominio dell'esperienza interna trascendentale e fenomenologica» (Husserl, 2002, p. 54). L'Io di cui ci parla Husserl nelle Meditazioni cartesiane è un Io trascendentale, a priori rispetto all'esperienza.
È ciò che condiziona ogni nostra esperienza. L'ego è ciò da cui il mondo riceve un senso. Esso sta al principio di qualsiasi intenzione della coscienza poiché dà un significato esistenziale al vissuto: «Questo mondo obiettivo con tutti i suoi oggetti attinge in me stesso [...] tutto il senso e tutto il valore esistenziale che esso ha per me» (Husserl, 2002, p. 54).
Il Me trascendentale è quindi l'ego, il filtro attraverso il quale osserviamo, percepiamo il mondo. Il fatto che Husserl reputi che non possa essere eliminato dall'epoché fenomenologica, dà l'idea del valore assoluto dell'ego nella sua filosofia. L'ego non è un vissuto tra i vissuti né nasce come tale: «esso sembra essere là costantemente, o anche necessariamente», appartiene a tutti i vissuti nella misura in cui «il suo sguardo si porta sull'oggetto "attraverso" (durch) tutto il cogito in atto», è dotato di «un'identità assoluta» all'interno di tutti i cambiamenti del flusso di coscienza, identità che in ogni caso non consente di considerarlo «in alcun senso come una parte o un momento reale dei vissuti stessi» (Husserl, 1965, p. 126, § 57). Husserl cita il famoso monito kantiano per rendersi ancora più esplicito: "l'Io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni".
L'ego (o il Me) trascendentale è tuttavia in relazione con le sole intenzioni della coscienza (ne è donatore di senso), esso «vive sempre in sistemi d'intenzionalità e sistemi concordanti fra loro, tanto più defluiscono nell'ego tanto più formano delle potenzialità stabili»; l'ego «non si saggia solamente come corrente di vita [o di cogito, come flusso di vissuti], ma come Me, me che vive questo o quello, me identico che vive tale o tal'altro cogito» (Husserl, 2002, p. 114). Esso esiste solo per se stesso e la stessa sua costituzione lo qualifica come esistente.
L'Ego, o Io apodittico, «non è un polo d'identità vuota» (Husserl, 2002, p. 115), esso si dà come substrato dell'habitus, del carattere inteso nel suo senso naturale, attraverso la posizione di una convinzione, in altre parole di un giudizio sull'Essere che condiziona il senso di tutti i vissuti. Tale convinzione fa sì che l'Io si costituisca come «substrato identico delle sue proprietà permanenti», esso si pone come una monade in senso leibniziano, non un'identità vuota ma una «pienezza concreta» (Husserl, 2002, p. 117) alla quale bisogna attribuire un'esistenza concreta.
Non solamente l'Ego resiste all'azione eidetica come centro di riferimento puro -privo, quindi, di un carattere specifico, resiste anche e soprattutto come centro d'identità. Che cosa intendere per "proprietà permanenti" e tale "esistenza concreta" se non lo stile, la personalità del soggetto, il suo mondo interiore? È contro tale concezione che Sartre sfodererà ne La transcendance de l'Ego un attacco alla concezione forte dell'Ego, del Me tracendentale inteso come filtro soggettivo onnipresente delle esperienze.
COME DECOSTRUIRE UN SOGGETTO?
La critica procede a partire da Kant: «bisogna accordare a Kant che "l'Io penso debba poter accompagnare tutte le nostre rappresentazioni". Ma bisogna concluderne che un Io, di fatto, abiti tutti i nostri stati di coscienza e operi realmente la sintesi suprema della nostra esperienza?» (Sartre, 1978, pp. 13-14).
Sartre pone una distinzione tra la questione di fatto e di diritto. La possibilità che l'Ego accompagni ogni rappresentazione si dà, infatti, proprio come una questione di diritto, che riguarda cioè qualcosa che è semplicemente possibile: l'Ego trascendentale (cioè come condizione di possibilità dell'attività della coscienza) esiste, ma non è necessario9. Kant, secondo Sartre, si pone delle questioni di diritto, per questo scrisse una critica. Husserl, per contro, fonda la fenomenologia sull'intuizione e cioè sulla possibilità di essere, una volta effettuata la riduzione trascendentale, in presenza della cosa. La fenomenologia è scienza descrittiva e non critica, essa tratta le questioni di fatto.
Effettivamente è possibile dimostrare che un Io penso, o un Ego trascendentale, possa solamente di diritto accompagnare tutte le mie intenzioni. Tuttavia, non è possibile procedere oltre: non possiamo dedurre, dal fatto che a volte siamo coscienti di una presenza forte dell'Io, che l'Io stia di fatto determinando tutta la vita della coscienza. Sartre si trova comunque di fronte a questo problema: ammettendo l'idea di una coscienza di fatto impersonale, come salvaguardarne e dimostrarne l'unità? Dobbiamo forse concepire l'idea una coscienza sfilacciata senza capo né coda?10
La risposta di Sartre è un invito a ritornare ai primordi della fenomenologia: «La coscienza si definisce attraverso l'intenzionalità. Attraverso l'intenzionalità essa si trascende, si unifica sfuggendosi»(Sartre, 1978, p. 21)11.
È possibile, per il filosofo francese, che «io possa sempre considerare la mia percezione e il mio pensiero come miei» (Sartre, 1978, p. 14) e dunque concepire una mia propria individualità. La questione è che tale individualità (unità del flusso dei vissuti) si fonda negativamente: la coscienza non ha contenuto in sé, bensì essa si costituisce nel mondo, tra le cose. Non esiste un io in atto dal quale sgorghino i raggi dell'intenzionalità: sono quest'ultimi, in atto, che presi nel loro insieme costituiscono un io in potenza.
Tutto ciò rimanda a quattro decisive conseguenze:
1) che il campo trascendentale diviene impersonale o, se si preferisce, prepersonale, esso è senza Io. 2) che l'Io non appare che a livello dell'umanità e non è che una faccia del me: la faccia attiva. 3) che l'Io penso può accompagnare le nostre rappresentazioni perché appare su di un fondo d'unità che non ha contribuito a creare o che è quest'unità preliminare che invece lo rende possibile. 4) che sarà legittimo domandarsi se la personalità (anche la personalità astratta di un Io) è un accompagnamento necessario di una coscienza e se si possa concepire delle coscienze assolutamente impersonali (Sartre, 1978, p. 19).
Il fatto che Sartre definisca la coscienza impersonale significa che la coscienza è, per sé, vuota. È una vuota unità data da «un gioco d'intenzionaltà "trasversali" che sono delle ritenzioni concrete e reali delle coscienze passate» (Sartre, 1978, p. 22). Husserl vede la necessità di ipotizzare un Io trascendentale come centro personale, unico propulsore di tutti gli atti della coscienza. Husserl pensa l'Io come la causa dell'attività psichica, come ciò che quindi dà significato alle esperienze. Sartre, al contrario, vede nell'Io un effetto dell'esperienza, un risultato della nostra avventura per il mondo. Secondo l'autore francese, a descrivere l'unità dei nostri atti è sufficiente un campo trascendentale pre-personale; la nozione di Io trascendentale è dunque inutile e «nociva».
Se l'Io trascendentale esistesse, infatti, «esso strapperebbe la coscienza a se stessa, la dividerebbe, scivolerebbe in ciascuna coscienza come una lama opaca. L'Io trascendentale è la morte della coscienza» (Sartre, 1978, p. 23) poiché si dà come un «me infinitamente contratto» (Sartre, 1978, p. 25) e quindi centro d'opacità. Sartre teme che si venga a limitare la spontaneità della coscienza incatenandola ad una sostanza (per quanto formale ed astratta)12.
Husserl è accusato di aver "appesantito" la coscienza, di averle fatto perdere quel carattere che ne faceva «l'esistente assoluto a forza d'inesistenza» (Sartre, 1978, p. 26). Supponendo una realtà superiore al campo trascendentale, il filosofo tedesco ha fatto dell'Ego trascendentale il vero assoluto e del campo trascendentale del flusso di coscienza qualcosa che gira intorno all'Ego, qualcosa di relativo e «ponderabile».
La coscienza è sì cosciente anche di sé, ma ciò non significa che essa richieda un altro punto di vista superiore a sé: essa «prende coscienza di sé come essente cosciente di un oggetto trascendente» (Sartre, 1978, p. 24). È per questo che la coscienza è per Sartre un assoluto non sostanziale13.
Liberata la coscienza dall'Ego trascendentale, resta da spiegare come si svolga, in questo contesto, l'attività del cogito, cioè il pensiero. «Questo Cogito è dato da una coscienza diretta sulla coscienza, la quale prende la coscienza come oggetto. Intendiamoci: la certezza del Cogito è assoluta perché, come dice Husserl, c'è un'unità indissolubile tra la coscienza riflettente e la coscienza riflessa» (Sartre, 1978, p. 28).
Quello di "riflessione" è un concetto chiave per la fenomenologia. Ogni coscienza, secondo Sartre, ha due attitudini fondamentali: una irriflessiva o preriflessiva che caratterizza la coscienza diretta su un oggetto (per esempio, la coscienza in quanto coscienza di un oggetto-quadro o di un oggetto-sonata-perpiano); un'altra riflessiva, che comporta il ritorno della coscienza su se stessa, dunque la forma in cui la coscienza s'intenziona nell'atto di intenzionare un oggetto (come se mi "scoprissi" ad osservare il quadro, intensamente o distrattamente o se mi sentissi contento o annoiato dalla musica che ascolto).
L'attitudine irriflessiva è inoltre caratterizzata dal fatto che essa è sempre posizionale, o tetica, rispetto all'oggetto trasceso (qualunque esso sia: un fiore, una sensazione, una fantasia, etc.). la coscienza focalizza l'oggetto in primo piano rispetto ad uno sfondo che appare sfuocato. Una coscienza irriflessiva non sarà coscienza di sé fino a quando non si rapporti a se stessa.
Tuttavia questo rapporto della coscienza a se stessa è differente rispetto al rapporto della coscienza con l'oggetto: più la coscienza è cosciente dell'oggetto, meno è cosciente di se stessa. Quando siamo realmente attratti da un'esperienza, tendiamo a dimenticarci della nostra individualità, dell'Io. Perciò Sartre aggiunge: la coscienza riflessiva «che dice "Io penso" non è precisamente quella che pensa» (Sartre, 1978, p. 28)14.
«La riflessione modifica la coscienza spontanea» (Sartre, 1978, p. 32). Nel momento in cui la coscienza si fa riflessiva, cioè nel momento in cui tematizzo il ruolo di spettatore l'oggetto dell'esperienza tende a scomparire, a perdere importanza. È come se al teatro smettessimo di perderci nello spettacolo per concentrarci su noi stessi: questo rappresenterebbe la fine della spontaneità e la fine dello stesso spettacolo. Sembra che per guadagnare un Io la coscienza smarrisca se stessa, cioè la sua carateristica di essere sempre coscienza di qualche cosa. Quando mi limito a vivere in forma irriflessiva, «sono allora immerso nel mondo degli oggetti, essi costituiscono l'unità delle mie coscienze che si presentano con dei valori, delle qualità attrattive e repulsive, ma io sono scomparso, mi sono annientato. Non c'è posto per un me a questo livello [della coscienza irriflessiva]» (Sartre, 1978, p. 32).
L'Io non si dona come momento concreto. Cartesio ed Husserl «hanno creduto che l'Io ed il penso fossero sullo stesso piano» (Sartre, 1978, p. 34), dunque hanno escogitato una sorta di sostanza pensante. Per Sartre, invece, l'Io o Ego «si dona attraverso la coscienza riflessiva. È saggiato dall'intuizione ed è l'oggetto di un'evidenza». Evidenza, certamente, ma non apodittica, giacché l'Io sorge in un secondo piano: come effetto e non causa dell'attività della coscienza, come il risultato del flusso della coscienza, «come un ciottolo in fondo all'acqua» (Sartre, 1978, p. 37).
Significato di una filosofia anegotica
Si possono riassumere le caratteristiche dell'Io sartriano in quattro punti:
1. l'Io è un esistente concreto e reale, legato alla possibilità della coscienza di cogliersi in prima persona (anche se, in un certo senso, con la "coda dell'occhio"). L'Io è a se stesso trascendente, la sua realtà è nel mondo.
2. Tuttavia, l'Io è colto sempre in maniera inadeguata da un'intuizione alle spalle di una coscienza irriflessiva. L'Io non appare che all'occasione di un atto riflessivo della coscienza.
3. L'Io trascendentale deve cadere sotto i colpi della riduzione fenomenologica. «Il Cogito afferma troppo», la sola cosa che siamo legittimati a dire di un'esperienza possibile, ad esempio osservare una sedia, non è «"Io ho coscienza di questa sedia", bensì "c'è coscienza di questa sedia"» (Sartre, 1978, p. 37). L'epochè va posta sull'Io, non sul mondo.
4. Come annunciato nell'ouverture de La transcendance de l'Ego, la realtà dell'Io trova il suo fondamento paradossalmente nel mondo, al di fuori della coscienza, vale a dire come contenuto e non causa della coscienza. In questo senso Sartre è empirista: l'Io è un effetto dell'esperienza.
L'Io non è una realtà assoluta e non è sempre presente. È qualcosa a cui diamo consistenza e che invochiamo mediante la coscienza riflessiva.
Quando corro dietro un tram, quando guardo l'ora, quando mi assorbo nella contemplazione di un ritratto non c'è Io. C'è coscienza del tram-che-deve-essereraggiunto, ecc., e coscienza non posizionale della coscienza. Di fatto io sono immerso nel mondo degli oggetti, sono essi che costituiscono l'unità delle mie coscienze, che si presentano con dei valori, delle qualità attrattive e repulsive, ma, in quanto a me, io sono sparito, mi sono annientato (Sartre, 1978, pp. 65-66).
Il vero significato della critica sartriana risiede nell'elogio della vita attiva, di una vita spontanea in cui non entri sempre in gioco il pre-giudizio, il filtro della soggettività. Sartre interpreta l'Io come un peso che disturba e impedisce realmente di avere un'esperienza. Ricordiamo uno dei passaggi più significativi dell'articolo L'intentionnalité: «se amiamo una donna, è perché ella è amabile». La natura dell'amore (come del desiderio o di tutto ciò che ci spinge all'azione) è legata strettamente alle qualità dell'amato, anzi, è l'amato stesso che apporta l'amore. Così per Sartre è l'oggetto che "muove" la coscienza e costituisce il soggetto. Quando osserviamo una donna e ne restiamo affascinati, è la donna che osserviamo e non la nostra idea di quella donna.
La libertà, in Sartre, è fondamentalmente libertà da se stessi, dall'essere obbligati ad essere se stessi, all'obbedire ad un&apos,identità che l'autore considera sempre come artificiale, imposta dalla società. Ma l'Io è un'espressione, e non una condizione della vita psichica. In fondo, quando sedeva al Bec du gaz con il suo amico Aron e questi gli presentava la fenomenologia, Sartre non voleva pensare a sé. Voleva solo bere (un'altra forma d'intenzionalità della coscienza) il suo cocktail all'albicoccaΦ
1 Motto della scuola fenomenologica era zur Sache selbst!
2 «Tutta la valorizzazione è valorizzazione di un Wertverhalt (stato dei valori), tutto il desiderio, desiderio d'un Wunschverhalt ecc. Agire va sull'agito, amare sull'amato, rallegrarsi sul rallegrato» (Husserl, 1965, p. 189). Sul pensiero di Brentano, relativamente agli sviluppi del principio d'intenzionalità e sull'influenza da questi avuta su Husserl e Heidegger, cfr. Renaut, A., Sartre, le dernier philosophe, Grasset, Paris 1993, pp. 83-91 e Lanfredini, R., Husserl. La teoria dell'intenzionalità, Laterza, Roma.Bari 1994, pp. 5-40.
3 Mouillie, J.M., Sartre et Husserl: une alternative phénoménologique?, in AA.VV., Sartre et la phénoménologie, E.N.S., Fontenay Saint-Cloud 1999, pp. 77-132. Mouillie mette l'accento sulla differente interpretazione della pratica dell'epoché: Sartre rifiuta l'idea husserliana della relatività della realtà rispetto alla coscienza (cfr. § 50 de Idee I) e della sua mancanza d'autonomia. «Per Husserl, il significato del rigore trascendentale esclude la contingenza. Secondo Sartre, la contingenza designa precisamente la parte impossibile da escludere. Liberata da tutta la confusione con le sue strutture psichiche, la coscienza non si limita a testimoniare il suo ruolo costituente: essa integra un riferimento all'essere senza il quale essa stessa non sarebbe mai tale» (Mouillie, 1999, p. 121).
4 Si tratta di un'interpretazione della fenomenologia evidentemente distante dai suoi contemporanei. Per esempio, osserviamo l'opinione di un altro fenomenologo dell'epoca, E. Levinas, che pensa, riguardo al concetto d'intenzionalità, esattamente il contrario: «L'intenzionalità della coscienza non è uno "sguardo vuoto", una luce trasparente diretta sugli oggetti; la trascendenza dell'oggetto, per rapporto alla coscienza, è costituita da un insieme ricco e "multicolore" d'intenzioni, avendo la fenomenologia per vocazione di "svelare la loro maniera —specifica ed originale per ciascuna di esse— di costituire l'oggetto trascendente» (Levinas, 1984, pp. 180-1).
5 Che cosa lesse effettivamente Sartre a Berlino? Dalle testimonianze di De Beauvoir (La force de l'âge cit.) e Sartre (Carnets de la drôle de guerre, Gallimard, Paris 1995) sappiamo che studiò le Ricerche logiche, le Lezioni per una fenomenologia della coscienza intima del tempo e Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, tomo I.
6Sartre farà del cosiddetto "mondo interiore" un bersaglio filosofico con altalenante successo. In Sartre infatti era già presente una sorta d'avversione all'interiorità già ai tempi dell'università: «I piccoli camerati [Sartre, Nizan, Aron] provavano il più gran disgusto per ciò che si chiama la "vita interiore"; in questi giardini in cui le anime di qualità coltivavano delicati segreti, essi vedevano, loro, delle fetidi paludi; è là che si attivavano dolcemente tutti i traffici della malafede, è là che si assaporavano le delizie stagnanti del narcisismo» (De Beauvoir, 1960, p. 23). Nello stesso modo Roquentin, protagonista de La nausée, annota sul suo diario: «ho riletto ciò che scrivevo al caffè Mably e ho provato vergogna; non voglio segreti, nè stati d'animo, nè l'ineffabile; non sono nè una vergine nè un prete per giocare alla vita interiore» (Sartre, 1947, p. 15). Al tempo della prigionia durante la guerra, Sartre annota: «Questa mattina, scrivendo su questo taccuino che vorrei cercare di cogliere lo stile dei miei gesti, mi sono sembrato un maniaco dell'analisi. [...] Provavo orrore per i diari intimi e pensavo che l'uomo non fosse fatto per osservarsi, che egli debba sempre fissare lo sguardo innanzi a sé. [...] Non voglio essere ossessionato da me stesso fino alla fine dei miei giorni» (Sartre, 1995, p. 72). Dobbiamo ammettere che abbiamo rilevato numerose testimonianze che contraddicono tali intenzioni. Nonostante deplorino l'auto-analisi e la vita interiore, sia Sartre sia De Beauvoir vi si dedicano a lungo, nelle proprie memorie o nelle biografie (Sartre, tra l'altro, scrisse la sua autobiografía, Les mots).
7Cfr. Glynn, S., "Identity, Perception, Action and Choice in Contemporary and Traditional "No-Self" Theories". En http://www.bu.edu/wcp/Papers/PPer/PPerGlyn.htm (visitato il 2 aprile del 2013).
8È certo che esiste un'evoluzione tra il pensiero di Husserl in Ideen e quello delle Meditazioni cartesiane, soprattutto relativamente al tema dell'Io. Noi presentiamo lo spirito della fenomenologia di Husserl all'epoca della presenza di Sartre a Berlino (quindi all'epoca dell'accettazione del Me trascendentale).
9Per evitare fraintendimenti chiarisco che intendiamo per "esistenza di diritto" un tipo d'esistenza possibile ma riscontrabile empiricamente solo in certe situazioni. Per "esistenza di fatto" intendiamo un tipo d'esistenza fattuale, empiricamente riscontrabile, ma non sempre necessaria. Ad esempio, il gatto di diritto potrebbe essere dietro la porta (è possibile che un gatto si trovi là), di fatto non si sa (bisogna andare a controllare). Oppure, analogamente al significato giuridico dei termini, esiste un diritto che di fatto non è sempre applicato.
10Ricordiamo che Husserl pone l'Ego trascendentale per caratterizzare e fondare il flusso dei vissuti come un continumm.
11«In Husserl si trova sottolineato [...] il senso dell'intenzionalità come una relazione tra io e mondo, in Sartre al contrario l'intenzionalità fonda non solo e non tanto una relazione quanto una doppia distanza: distanza incolmabile della coscienza da sè e dalle proprie strutture egologiche [...], e nello stesso tempo distanza dal mondo. È difficile stabilire se questa differenza sia più giustificata teoreticamente o più "pregiudiziale"» (Comolli, 1989, pp. 110).
12«Se la coscienza comprendesse un "interno" (qualità, sentimenti, pensieri: in breve un'identità personale intrinseca de originaria), perderebbe la sua straordinaria prerogativa di essere essenzialmente tensione conoscitiva, intenzionalià. Il fatto che Sartre, fin dall'inizio, concepisce arbitrariamente l'Io e le sue determinazioni nei termini di un oscuro "sottobosco" di oggettualità quasi-materiali, di dati, inerzia, passività. Ogni struttura o predicato della coscienza, per Sartre, va posto come secondario rispetto al primum della mera "coscienzialità" in quanto tale» (Comolli, 1989, p. 112).
13«Sartre, che no si preoccupa in alcun modo delle invarianti fondamentali della conoscenza, ma piuttosto del mondo degli esistenti nel loro primo emergere, non si trova, da parte sua, in nessun modo costretto ad identificare l'ego come oggetto reperibile nel campo trascendentale. E lo può solo dall'istante in cui ha disconnesso questo campo dall'istanza dell'ego trascendentale, l'ipotesi del quale appare allora come una pura finzione speculativa. Praticherà dunque una fenomenologia senza egologia. "L'ego trascendentale, dirà, è la morte della coscienza". E in questo senso è ben vero, poiché recinta un campo che, per essenza, non saprebbe restare che aperto» (Desanti,1990, p. 361).
14Lo stesso appare ne L'essere e nulla: «Non c'è prima una coscienza che riceva poi l'emozione "piacere", come un'acqua che si colora, come non c'è prima un piacere (incosciente o psicologico) che riceva poi la qualità di cosciente, come un fascio di luce» (Sartre, 1997, p. 20). Cfr. anche Varet, 1948, pp. 30-33.
REFERENCIAS
De Beauvoir, S. (1960). La force de l'âge I. Paris: Gallimard. Trad. propria.
Comolli, F. (1989) "Le strutture trascendentali della coscienza nel primo Sartre: ipotesi di lettura". Rivista di filosofia neo-scolastica. (1). pp. 107-137.
De Coorebyter, V. (2000). Sartre face à la phénoménologie, autour de "L'intentionnalité" et de "La transcendance de l'Ego". Bruxelles: Editions OUSIA.
Desanti, J-T. (1990). Sartre et Husserl, ou les trois cul-de-sac de la phénoménologie transcendantale. "Les Temps Modernes". 531.
Glynn, S. (s.f.). "Identity, Perception, Action and Choice in Contemporary and Traditional "No-Self" Theories". En: http://www.bu.edu/wcp/Papers/PPer/ PPerGlyn.htm (visitato il 2 aprile del 2013).
Husserl, E. (1965), Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, a cura di G. Alliney ed E. Filippini, Einaudi, Torino.
Husserl, E. (2002). Meditazioni cartesiane. trad. di F. Costa. Milano.
Levinas, E. (1984). La thèorie de l'intuition dans la phénoménologie de Husserl. Paris: VRIN.
Mouillie, J.M. (1999). Sartre et Husserl: une alternative phénoménologique? In AA.VV., Sartre et la phénoménologie, E.N.S., Fontenay Saint-Cloud. 1999.
Sartre, J. P. (1947). Une idée fondamentale de la phénoménologie de Husserl: l'intentionnalité, in Situations I. Paris: Gallimard.
Sartre, J.P. (1978). La transcendance de l'Ego. Esquisse d'une description phénoménologique. Paris: VRIN.
Sartre, J.P. (1997). L'essere e il nulla. Saggio di ontologia fenomenologica. Trad. it. di G. Del Bo. Il Saggiatore. Milano.
Sartre, J. P. (1947). La nausée. Trad. di B. Finzi. Einaudi. Torino.
Sartre, J. P. (1995). Carnets de la drôle de guerre. Septembre 1939-mars 1940, Paris: Gallimard.
Varet, G. (1948). L'ontologie de Sartre. Paris: P.U.F.